Un Paese molto speciale

Qualche giorno fa sono inciampato in un tweet dell’account ufficiale di Sinistra Italiana. Lo riporterei come immagine, ma nel frattempo sono stato bloccato, quindi non posso più leggere l’account. Il tweet rilanciava un articolo apparso su Rainews24, con il titolo originale. Questo l’articolo: LeU, Sinistra Italiana ha respinto le dimissioni presentate da Nicola Fratoianni. In pratica il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, ha presentato le dimissioni in direzione nazionale. Queste dimissioni saranno discusse in assemblea nazionale e la direzione del partito ha presentato una mozione di sostegno al segretario per evitare le dimissioni.

Il mio commento è stato un semplice “Buffoni”. A distanza di qualche giorno, ho un momento per mettere insieme una risposta un pochino più ragionata.

La premessa obbligatoria è che la Storia e la politica non andrebbero analizzate guardando alle singole persone, ma in termini di macro processi e relazioni sociali di carattere economico e culturale. Questo è innegabile su periodi medio-lunghi. Tuttavia, su periodi brevi, di alcuni anni, singole persone che dispongano per vari motivi di potere decisionale possono fare, e hanno fatto in passato, la differenza in senso sia positivo che negativo. In termini concreti, la differenza tra due gruppi dirigenti può risultare in una accelerazione di un processo di trasformazione o in un significativo rallentamento, mentre altri Paesi in condizioni simili evolvono in senso politico e riescono a rispondere alle sfide poste dalle trasformazioni sociali. In Italia, la sinistra ha avuto alti e bassi negli ultimi 20-25 anni, ma si può dire che sia sostanzialmente ferma al palo dal biennio 2011-12. Perché?

Io non sono d’accordo con chi, con una certa ingenua esterofilia, sostiene che l’Italia sia un Paese particolarmente più ignobile di Spagna, Grecia, UK o Francia. In tutti questi Paesi l’aumento di disparità economica che ha seguito la crisi del 2008 e l’applicazione feroce di politiche di austerity e di contenimento della spesa statale (con annessa contrazione delle politiche volte alla redistribuzione delle ricchezze e al welfare state in generale) ha innescato una polarizzazione del voto che si è rivolta sia alla destra populista e nazionalista che alla sinistra socialista o social-democratica. Lo slittamento a sinistra e a destra è stato accompagnato dalla rapida erosione di consensi degli storici partici di centro-sinistra e centro-destra (e.g. Francia, Spagna o Grecia) o dalle correnti centriste nei Paesi in cui vige un forte bipolarismo (e.g. in UK con Corbyn da un lato e i Brexiters contro Cameron dall”altro e con i LibDem, storico partito di centro, sostanzialmente cancellato alle ultime elezioni). In Italia le ultime elezioni confermano questo stesso trend  verso l’estrema destra (Lega) o verso la destra populista (M5S), mentre a sinistra tutto tace. Non solo non ci sono formazioni in grado di catalizzare il voto di trasformazione “anti-sistema”, ma anche il partito più centrista, il PD, nonostante il calo, non è sceso ai livelli ad esempio del PASOK in Grecia (6.3%), il PS in Francia (7.4%) o -in un confronto un po’ forzato- al livello delle correnti centriste/Blairiane nel Labour (a cui Renzi si ispira), che tutte insieme non sono andate oltre il 38% di voti nelle primarie vinte da Corbyn. Anche in Spagna, dove il PSOE ha perso consensi, ma ha tenuto in parte restando sul 20%, le prospettive dello storico partito socialista sono piuttosto negative, spaccatosi sulla questione dell’appoggio a Rajoy e in marcia verso l’autodistruzione senza segretario da mesi, mentre Podemos (e alleati) supera ormai il 25% dei consensi alle elezioni nazionali.

In Italia io penso ci siano stati due momenti distinti in cui questo percorso a sinistra si sarebbe potuto concretizzare: la prima volta addirittura in anticipo sugli altri stati europei (biennio 2010-2011) e una seconda volta con un po’ di ritardo nel periodo 2014-2017. La prima opportunità è stata bloccata quando Bersani ha sostenuto il governo Monti nel Novembre 2011. A sinistra del PD a quel punto era già aperto uno spazio politico, occupato in modo soddisfacente da Nichi Vendola e da SEL, come dimostrato da alcuni successi importanti (ad esempio per la regione Puglia e per le città di Milano o Cagliari). Purtroppo in seguito alla formazione del Governo Monti, SEL si trovò nella scomoda posizione di non poter criticare il governo in modo incisivo per non rischiare in questo modo di compromettere la partecipazione alle annunciate primarie di coalizione con il PD. In aggiunta, SEL era per scelta un partito destrutturato, quindi incapace o privo della volontà di entrare nei conflitti sociali in corso e fare da volano, spingendo verso una cooperazione tra lotte locali o sociali di settore altrimenti isolate. Alcuni tentativi (ad esempio l’organizzazione di un fronte sul reddito minimo garantito, le battaglie per l’internalizzazione nei servizi, il tentativo di organizzare un fronte comune sull’alta formazione ecc.) vanno riconosciuti come certamente positivi, ma non furono organici o valorizzati nel partito stesso, quando non apertamente ostacolati in quanto possibile fonte di competitori interni in ruoli dirigenziali. Quando infine -dopo la sconfitta alle primarie e con l’ascesa di Renzi come nuova incarnazione della richiesta della base di una rottura con il passato ad ogni costo- Vendola decise di appoggiare Bersani, senza portare a casa nemmeno una lista minima di obiettivi programmatici, di fatto quello spazio politico che potesse raccogliere i consensi della polarizzazione a sinistra post crisi e catalizzare il desiderio di trasformazione (di “sparigliare”) e scuotere il sistema di potere, venne chiuso. SEL diventò agli occhi di tutti un PD in piccolo e il risultato elettorale si rivelò nell’ormai predicibile milione circa di voti. Ci sono molte attenuanti per le scelte di Bersani e Vendola, che non furono certamente semplici: in questo contesto è sufficiente ricordare la pressione esercitata dal presidente Napolitano e dalla borsa (quindi BOT e debito pubblico) in preda agli speculatori. Tuttavia la responsabilità politica resta sulle loro teste in quanto soggetti con potere decisionale.

Meno interessante e complessa è la storia della seconda opportunità persa dalla sinistra italiana nel periodo 2014-2017. Fallita l’alleanza della coalizione Italia Bene Comune e alla formazione di governi di “grande coalizione” sempre più orientati a destra (l’evoluzione Letta-Renzi-Gentiloni), il drappello di parlamentari di sinistra ha nuovamente perso l’occasione di presentarsi come unificante (o rilevante) nelle lotte aperte su fronti multipli (ad esempio il lavoro con il “Jobs act” o la scuola con “La buona scuola”), confermandosi marginale anche nella battaglia sulla difesa della Costituzione, in cui paradossalmente le destre -per motivi puramente di opportunismo politico di piccolo cabotaggio- sono state determinanti. In aggiunta, a conferma della contiguità ideale tra SEL e PD, la frattura avvenuta dopo le elezioni europee del 2015, con metà del gruppo parlamentare di SEL che cambia casacca a favore del PD.

Al di là delle scelte dei singoli individui, in assenza di una sinistra non corresponsabile (semplifico) delle politiche neo-liberiste e di austerity perseguite dal 2011 in poi, il voto motivato dal desiderio di cambiamento (politico, sociale, nella distribuzione del reddito, nelle dinamiche lavorative ecc.) che avrebbe potuto essere raccolto dalla sinistra ha gonfiato i consensi del M5S per la prima volta già nel 2013, portando poi all’esplosione cinque anni dopo di M5S e Lega (anche questa raccoglie una parte del voto storico del PCI).

Fatto tutto questo quadro io penso sia legittimo dare una riposta alla domanda: cosa rende l’Italia speciale?

Il contesto economico sociale offerto da altri Paesi europei può essere considerato -credo- un buon modello di ciò che sarebbe potuto succedere anche da noi. Secondo me quindi le responsabilità sono chiare: il ceto politico di sinistra si propone e ripropone con liste ondivaghe sul tema delle politiche sociali, delle alleanze, senza un chiaro progetto politico per l’Italia che vada oltre i classici 3 mesi di campagna elettorale e con alle spalle anni di politica testimoniale, marginale e -con poche lodevoli eccezioni di resistenza da trincea dovuta alle capacità di singole persone- spesso inutile.

La responsabilità delle scelte di posizionamento, dell’incapacità di costruire fronti coesi di opposizione o di aprire fronti di conflitto sociale è personale, non è necessitata da strutture economiche o sovrastrutture culturali. Peggio, alcune di queste scelte sembrano motivate da timori personali e incapacità esplicita nel comprendere quali tempi, quali modi e quali obiettivi siano efficaci per uno scopo altro, che non sia quello del mantenimento di un drappello di deputati e senatori “con diritto di tribuna”.

In conclusione, per tornare al punto di partenza di questo post, il comportamento della direzione di Sinistra Italiana secondo me va letto come in linea con questa analisi, per cui onestamente non posso che confermare il mio commento irritato. Anche perché onestamente, andando verso un altro governo di grande coalizione (e.g. Lega+M5S o addirittura PD+Forza Italia+Lega?), farebbe comodo averlo un progetto e sarebbe un atto rivoluzionario se i dirigenti di un partito di sinistra decidessero di organizzare ricomporre i conflitti sociali, piuttosto che i ceti politici.

 

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