Tra testimonianza e rappresentanza

Qualche mese fa, durante una riunione di “ricercatori precari” nell’istituto del CNR in cui lavoro (istituto in cui i contratti a termine rappresentano oltre il 50% del totale), i presenti hanno discusso della possibilità di protestare contro il ricorso continuo che si fa al lavoro non retribuito, su base “volontaria”. In molti, infatti, lavorano gratis a lungo, per mesi, in attesa che venga bandito un concorso a cui poi poter partecipare:  un atteggiamento che si realizza anche quando il laboratorio afferente dispone dei fondi economici necessari a bandire un concorso immediato.

L’assemblea non ha trovato un accordo sul censurare in modo compatto questo comportamento, nonostante in molti tra i presenti avessero vissuto quella esperienza, perché più d’uno ha ritenuto il sistema non solo legittimo, ma in effetti favorevole per i giovani ricercatori.

Non è, ovviamente, un caso isolato: l’editoria (per usare un altro esempio di cui chi scrive ha esperienza diretta) si basa su finti stage di formazione offerti anche (o soprattutto) a persone che lavorano nel campo da anni e che quindi sono più che qualificate. Anche qui, è difficile capire perché chi lo subisce accetti e giustifichi questo comportamento, ma questo è ciò che accade.

Il motivo è che oggi in Italia la maggior parte di coloro che sono entrati da poco nei 30 anni, come chi scrive, combatte per un contratto a termine, in una logica di frammentazione selvaggia e contrattazione personale: non è la solidarietà quella che viene a mancare, ma una prospettiva. Ad un certo punto è passata l’idea che chi assume stia facendo un favore a chi viene assunto e che in fondo il non adeguarsi sia una scelta di comodo, perché si ha poca voglia di lavorare, perché non si ha la forza per sacrificarsi.

In alcune circostanze, infine, è talmente alto il livello di scoramento che un turbinio di false speranze, sensi di colpa e di inadeguatezza si mescolano assieme indirizzando verso scelte obbligate, seppur senza orizzonte.

Tutto questo insegna principalmente una cosa a chi vuole avere un’ottica politica: le buone idee e un’etica basata su alti principi sono necessarie, ma non sono sufficienti. Se non viene costruito un consenso, nel senso di consapevolezza critica, intorno a queste buone idee, le possibilità di trasformare realmente la società scendono a zero e la politica di un partito diventa una mera questione di testimonianza.

Come SEL non basta dire semplicemente che è sbagliato lavorare gratis o sottopagati, che è giusto avere un sistema idrico pubblico, che il nucleare civile è la risposta sbagliata ai problemi energetici o che i problemi di sicurezza sono ambientali e sul lavoro e non di immigrazione (tanto per fare degli esempi) e così facendo sperare di attrarre i voti di chi è d’accordo.

Noi non possiamo sposare il detto televisivo “con il pubblico non si discute” perché  il nostro problema non è la vendita di un prodotto: noi vogliamo operare la trasformazione della società attuale perché altrimenti vivremo sempre peggio e per fare questo dobbiamo passare attraverso la trasformazione culturale e materiale del paese.

Ci servono una prospettiva e un percorso ed entrambi partono dall’inversione della spirale esplosiva che ha frammentato la società, privando di potere decisionale sulle proprie vite milioni di persone.

La tensione verso la ricomposizione, l’unire le forze disperse, ci porta dalla testimonianza politica, ad una efficace rappresentanza, agire politico degno di un partito. Un lavoro lungo e faticoso, ma solido e concreto.

Un lavoro, bisogna sottolinearlo, che se si ritiene indispensabile oggi, se si pensa che debba contare su strumenti teorici e materiali nuovi, ma che debba imparare anche dal passato senza restarne schiavo, allora è anche un lavoro che si dovrà ritenere altrettanto indispensabile dopo le elezioni regionali, che non sono “l’ultimo banco di prova”!

Non usciremo in un giorno dalla crisi in cui versa il nostro paese: occorre darsi fiducia, ricordarsi che il mettersi in gioco comporta il rischio di compiere errori, è naturale, e che la critica analitica è sintomo di vita intellettuale e non di disfattismo. È necessario che chi ha più esperienza aiuti e soprattutto dia spazio di azione a chi adesso sente sulla propria pelle l’esigenza di trasformare lo stato attuale delle cose, nella consapevolezza che ogni generazione è portatrice di una ricchezza di idee, strumenti, sogni e anche errori da compiere.

Non c’è da aspettare il permesso di nessuno: questo è il momento giusto di provare a prendere il controllo sulla nostra vita, prima che ce la ipotechino definitivamente.

Buon lavoro a tutti noi.

Vincenzo Fiore

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